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Giustizia

COMMA LIBERO – 1

Il terzo trasportato: fine di un mito?

E così la Cassazione, con la sentenza n. 4147 del 2019 ha appena sgretolato uno dei dogmi della disciplina tratteggiata dal Codice delle Assicurazioni, macchiando il dorato mondo del terzo trasportato, e rendendo d’ora in poi la vita più triste per tutti.

Per gli operatori del diritto era un sollievo sapere con certezza, almeno in quel caso, con chi prendersela, visto che il legislatore era stato piuttosto chiaro. Infatti il tenore letterale dell’art. 141 CdA chiarisce che il danno al terzo trasportato è risarcito dalla compagnia di assicurazione del vettore, cioè del veicolo su cui egli era a bordo; e ciò “a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro”. Una bella semplice azione diretta contro sola la compagnia di chi ti ha fatto salire in macchina e tanti saluti. Il trasportato veniva risarcito, e poi tutto il gioco di distribuzione di responsabilità sulle dinamiche fra i conducenti dei due veicoli coinvolti rimaneva problema loro, garantito dall’azione di rivalsa della compagnia che aveva dovuto anticipare gli importi a prescindere.

Ma era un mondo fatato. Era contento il mitico terzo trasportato, che, senza fare code, si trovava il bersaglio bell’e pronto, e doveva solo preoccuparsi di presentarsi alla visita e saper far di conto. Era contento anche il suo avvocato, colpito anch’egli di riflesso da quel binario privilegiato, che materializzava il liquidatore in un amen, con tutte le belle implicazioni economiche e non, tipo quella di avere l’impressione di dedicare la vita professionale ad un sistema efficiente. Erano contenti persino i magistrati, che non si trovavano le solite citazioni tutte da decifrare, con una platea aperta di convenuti, terzi chiamati, e quindi intasamenti di ruoli. Pensa che un mio amico magistrato mi ha confidato che suo figlio, da grande, avrebbe voluto fare il trasportato.

Senza contare l’indotto. Perchè ovviamente la voce ormai si era sparsa, ed anche dall’estero ormai le vacanze nel bel paese si arricchivano di questo ulteriore optional, e -nel dubbio- farsi trasportare da noi faceva la differenza.

Forse erano solo le Compagnie assicurative a fare quella faccia da lunedì. Infatti.

Per ragioni che possono anche fare onore alla civiltà dei distinguo di cui siamo nutriti, ma che hanno rotto l’incantesimo, la Cassazione con la sentenza in questione ha in realtà letto l’art. 141 trovandoci quel che non vi è scritto, e cioè che il gettone vincente regalato al trasportato non vale se il suo bel trasportatore non è responsabile proprio per nulla del sinistro. Insomma: per l’applicazione di quella disciplina il vettore deve essere riconosciuto -anche in piccolissima parte, s’intende- corresponsabile.

Ma ciò riporta la questione comunque sul preliminare piano dell’an, cioè della responsabilità fra i conducenti, azzerando tutte le certezze ed i benefici posti a monte di quella disciplina; e quindi, come potrà il trasportatore attivare l’art. 141 se poi in giudizio emergesse che il suo bel vettore aveva adottato comportamento irreprensibile? Come potrà l’ex mitico trasportato essere garantito? Nel dubbio dovrà scegliersi un vettore almeno un po’ distratto, con tanto di certificazione di almeno modestissima inidoneità. 

COMMA LIBERO – 2

Molto rigore per nulla

La mia libertà finisce dove inizia la tua, diceva il mio compagno di banco alle elementari.

Finchè siamo in due mi può star bene -rispondevo. Ma se fossimo in dieci? Come posso lottare contro nove libertà altrui?

Signore, signori, ecco a voi il condominio: la cellula primordiale della società civile, il luogo dove le differenze diventano arricchimento, dove l’idea si fa democrazia, dove il singolo si riconosce nel gruppo; insomma, il regno dei vincoli.

Almeno sul piano dei princìpi, infatti, il condòmino è circondato dai divieti dalla levata del sole in poi.

Chiunque abbia fra le mani un Regolamento condominiale, elaborato in qualche modo da amministratori più o meno creativi, troverà ragioni di sconforto in proposito.

Ma qui si discute di piani alti: e cioè del legislatore del 1942, che ha architettato il celeberrimo art. 1102 del codice civile, in cui è sancito che “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè…non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Il che è anche condivisibile, ma se interpretato alla lettera e con malizioso rigore, può divenire paradossale.

Per esempio: se c’è uno spazio comune, ed io vi lasciassi in sosta temporanea il Guzzino d’epoca per cinque minuti -il tempo di un caffè- nessuno si offenderebbe; certo però in quei cinque minuti nessuno potrebbe usare quello stesso specifico spazio. Quindi il tema è: il divieto di cui all’art. 1102 è radicale, oppure non opera in caso di utilizzo assolutamente temporaneo, o spazialmente irrilevante, e quindi tollerabile?

La Cassazione, terra di princìpi, non fa prigionieri e ritiene del tutto irrilevante ogni distinguo, magari legato ad un termine temporale irrisorio di occupazione, o a spazi del pari insignificanti occupati. Verboten, verboten, verboten.

Con la recente ordinanza n. 7618 del 2019, infatti, chiarisce che “l’art. 1102 non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l’operatività delle limitazioni dell’uso…sicchè può costituire abuso anche l’occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune”, ecc…

Tredici secondi?, mezzo metro?. Non importa, stai abusando, stai violando la legge.

Certo, la sottesa ratio è leggibile, ed il sacrificio di ciascuno diventa garanzia di serena convivenza, prevenendo spifferi e concessioni che soggettiverebbero pericolosamente la regola.

Ma siamo sicuri che siano più pericolosi i presunti banditi dei presunti sceriffi in un condominio? Non sono la tolleranza ed il buon senso le regole poste a monte della bacheca d’ingresso, al fine di evitare quotidiane scene western a norma di legge?

Forse ci si sarebbe potuti aspettare un maggior coraggio -o realismo- dalla Suprema Corte, che peraltro in altri e non meno rilevanti settori dell’ordinamento (es. ecludendo il risarcimento di danni bagatellari, o di danni morali, e persino sul tema inquietante delle immissioni dal fondo vicino ex art. 844 c.c.) ha già predicato ampie soglie di tolleranza, ancorandole a criteri di civile responsabilizzazione, invece di negarne il riconoscimento con approccio sanzionatorio come in questo caso. 

COMMA LIBERO – 3

13 minuti 

Non è facile toccare leggero certi temi.

Credo che però vada conosciuto e diffuso l'orientamento che la giurisprudenza -cioè i magistrati- ha su di un tema primario, circoscritto e specifico: la consapevolezza della morte imminente a causa di un illecito altrui è un danno da sé risarcibile? Insomma, la pura paura di morire -seguita dal decesso- è un danno sempre risarcibile, se ovviamente è ingiusta e dipende da un terzo?. 

Certo che sì, si dirà. Diamine, che domanda. 

Ma la risposta della giurisprudenza, ormai da tempo cristallizzata (Cassazione, n. 6754/2011), è più articolata, ed in estrema sintesi la seguente: il danno (cosiddetto “catastrofale”) è risarcibile (agli eredi) solo se:

    1) la vittima ha vissuto la lucida prospettazione dell'imminente exitus, e quindi abbia avuto piena consapevolezza dell'ormai prossimo proprio decesso

    2) è decorso un considerevole, od apprezzabile lasso temporale fra tale consapevolezza ed il decesso.

Sulla prima condizione qui non mi addentro; evidentemente la Cassazione ha inteso escludere la configurazione di tale danno a propria insaputa, il che può anche condividersi; certo, non sempre è agevole provare se vi sia stata o meno tale consapevolezza, ma tant'è. 

E' però sul secondo elemento che vale la pena soffermarsi, prestandosi esso a maggiori margini discrezionali dell'interprete, appunto sulla individuazione dell'arco temporale sufficiente alla consacrazione del danno, ed anzi, ancor prima, alla necessità stessa di un lasso di tempo, come se un dato puramente qualitativo -la consapevolezza- dipenda da un dato puramente quantitativo; od, in altri termini, se la qualità sia una gradazione della quantità.

L'occasione per affrontare l'argomento è una recente statuizione del giudice di merito (Tribunale Lecce, sent. n.132/2019); si trattava di vicenda in cui, per errore medico, le condizioni di salute del paziente siano precipitate alle ore 12,35 e sia intervenuto il decesso alle ore 12,48.

Ebbene, nel caso in oggetto il Tribunale ha ritenuto che 13 lunghissimi minuti non fossero stati sufficienti ad integrare quell'apprezzabile lasso temporale, ed ha quindi rigettato la specifica richiesta risarcitoria di tale voce di danno.

Il che, ritengo, debba sconcertare ciascuno di noi, e dà l'idea realistica del terreno di gioco, in cui la miopia dell'interprete è legittimata proprio dall'ordinamento che, appunto costruendo la qualità con la deriva quantitativa, induce a tali irreali esiti.

E pone, di riflesso, interrogativi sul senso del tempo, e della vita stessa.

Perchè in fondo è secondario sapere di quanti minuti è composto un tempo apprezzabile di danno. la gradazione quantitativa, semmai, avrebbe potuto/dovuto essere categoria da utilizzare per la gradazione dell'entità del risarcimento, ma non certo per negare l'esistenza del danno. 

Altrimenti ci troveremmo tutti con il cronometro in mano, per sapere se il tempo scorra oppure no; anzi, per sapere se siamo vivi o no.

COMMA LIBERO – 4

Invasioni di Stato: matrimonio a tre, e prove di rimedio

Il tema della locazione immobiliare ha generato un universo di disposizioni legislative e di pronunce giudiziali, tanto da rendersi disciplina estremamente tecnica e di complessa decrittazione; il che potrebbe apparire insolito, visto che -nell'immaginario collettivo- la sintesi dei suoi elementi essenziali è semplice ed intuitiva, riposando nel semplice rapporto e contratto privatistico fra la concessione di un immobile per un certo tempo previsto ed il pagamento del prezzo concordato. 

Il fatto è che, proprio per la rilevanza primaria dell'esigenza genetica -quella abitativa- tocca temi sociali e costituzionali, e non è più un fatto esclusivamente privato, ma in sostanza un contratto a tre, fra locatore, conduttore e legislatore; l'ordinamento, infatti, si è fatto carico di introdurre nel settore in questione la categoria delle norme imperative, poste -per lo più- a tutela della parte debole del contratto, addirittura con la sostituzione automatica della disciplina vincolistica nel contratto privato laddove le parti anche avessero concordato violazioni. L'esempio ovviamente è quello della durata minima del contratto, imposta ex lege anche a prescindere dal patto privato.

In questo complessivo scenario vi è da chiedersi quale sia il perimetro di invadenza dello stato nella libera volontà delle parti. Se infatti è pacifica la legittimazione di tale invasione di campo anche a prescindere da temi strettamente espressi nella Costituzione purchè però di rilevanza sociale e di tenuta complessiva del sistema (come appunto la durata del rapporto), occorrerebbe evitare che una ratio siffatta, applicata indiscriminatamente, sacrifichi del tutto irragionevolmente il patto privato, magari arrivando a stravolgerne la portata e gli effetti.

Il pericolo, per esempio, si è presentato a ripetizione in riferimento alla questione della registrazione del contratto, quando cioè le prerogative del legislatore/protettore di parte debole sono state oggetto di utilizzo dal legislatore/esattore. Il legislatore, infatti, si era fatto prendere la mano; al fine di tutelare le proprie esigenze tributarie, ha infatti sanzionato espressamente con la nullità il contratto di locazione non registrato, per esempio con l'art. 1, comma 346 (sic!) della L. 311 del 2004. Non è difficile immaginare la bomba giuridica innescata da tale posizione; l'azzeramento del contratto, per quella patologia puramente fiscale, avrebbe reso inesistenti in radice i titoli per l'occupazione, e quindi avrebbe legittimato procedure di rilascio, rovesciando quindi radicalmente le priorità e le ratio che l'intervento vincolistico avrebbe dovuto garantire. Che il pericolo sia stato -e sia- serio, è attestato dal fatto che -da un lato- è arrivato ad interessare i vertici del nostro sistema giudiziario -la Corte Costituzionale e la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite- e -dall'altro- che evidentemente non è bastato.

Non è questa la sede per approfondire i vari percorsi giudiziali, talvolta contrastanti, interni al giudice delle leggi ed a quello di legittimità; mi basta evidenziare in estrema sintesi il problema giuridico che avevano di fronte, e quale ne è stato l'approdo.

Il problema giuridico era la categoria della nullità; laddove infatti fosse qualificato nullo un contratto non registrato tempestivamente, non sarebbe stata possibile alcuna sanatoria tardiva, visto che, ai sensi dell'art. 1423 c.c. “il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”. E del resto a qualificare nullo quel contratto non era stato solo il legislatore del 2004, ma lo stesso codice civile, che attribuiva quelle conseguenze appunto ai contratti “in frode alla legge” (art. 1344) ed a quelli operati in violazione di norme imperative (art. 1418). 

Sarebbe quindi occorsa una posizione forte, determinata e coraggiosa dei nostri vertici giudiziari per tacitare quel pericolo di corto circuito, di difesa dello stato da se stesso. 

Posizione che, però, non pare essersi verificata; se è vero, infatti, che il sistema ha saputo mettere in qualche modo una toppa al citato pericolo, non pare averlo fatto in modo convincente e definitivo, come se la partita possa essere suscettibile di supplementari.

Già il fatto, intanto, che la problematica abbia dovuto interessare le Sezioni Unite evidenzia le incertezze di fondo all'interno del sistema stesso; ma è la costruzione giuridica argomentativa a svelare l'imbarazzo dei nostri migliori giudici. 

Alludo, in primo luogo, alla sentenza n. 23601 del 2017 che ha sì legittimato la registrazione tardiva con effetti ex tunc -e quindi originari- del contratto, ma lo ha fatto confermando la categoria della nullità del contratto non registrato, e quindi con argomentazione che ha dovuto provare a spiegare che un contratto nullo...può essere valido.

Trattandosi di passaggi estremamente tecnici vi risparmio il dettaglio; vi dico solo che la sentenza delle Sezioni Unite, per salvare capra e cavoli, arriva a dire che trattasi di nullità “impropria od atipica” (??), e che la successiva “sanatoria di adempimento” sarebbe “coerente con la nullità funzionale per indempimento” (??).

Si tratta di sentenza che lascia strane sensazioni: da un lato, da modesti legali di provincia, ci sentiamo piccoli piccoli di fronte a tale visione giuridica prospettica, profonda e creativa, a cui non saremmo mai giunti; dall'altro, da persone comuni, abbiamo il sospetto che le parole a volte siano il fine e non il mezzo.

Ed il bello è che, nonostante tale autorevolissima sentenza a Sezioni Unite, ad appena due anni di distanza -ed è pronuncia di cronaca- il problema è stato nuovamente posto sul tappeto della Cassazione; alludo alla sentenza n. 18942 del 2019, che ha dovuto nuovamente rispondere al medesimo quesito, il che attesta la intrinseca debolezza delle argomentazioni della citata risalente statuizione. E cosa ha fatto in questo nuovo caso la Corte? Non trovando evidentemente altre argomentazioni di supporto si è limitta al pedissequo richiamo al precedente, perdendo probabilmente una occasione per chiudere il conto, e doppiando la timidezza di quell'arresto.

Nel dubbio, quindi, fossi in voi registrerei.

COMMA LIBERO – 5

Una email è per sempre

Uno dei temi giuridici più sottovalutati, sia dal legislatore che da buona parte del mondo privato ed imprenditoriale è quello sulla efficacia probatoria di una email. Eppure siamo di fronte ad una questione assolutamente decisiva per la tutela e l'esercizio dei diritti, visto che ormai tutti comunichiamo in questo modo, non solo per questioni famigliari, ma anche e soprattutto per ragioni lavorative, commerciali, professionali, ecc..; sarebbe carino, quindi, sapere se e con quali limiti la posta elettronica, non certificata, possa assumere un qualche valore in un giudizio (es. un riconoscimento di debito, o di un inadempimento o di un vizio nella fornitura, o di un fatto o di un accordo verbale...); almeno per sapere se è conveniente regolare i nostri polpastrelli quando la tastiera si scalda, o possiamo allegramente perdere il controllo dell'etere.

Naturalmente non siamo nella Common Law e quindi c'è sempre vento anche sulle posizioni giurisprudenziali che attengono a tale fronte; tuttavia la Cassazione più recente, pur con qualche distinguo nell'enfasi e nel coraggio, ha assunto princìpi che danno una direzione; ed è quella più realistica, che tende via via a valorizzare con sempre maggior estensione tali modalità di comunicazione, nell'ottica di prova giudiziale. Il che può essere un detonatore formidabile in un processo, e può consentire colpi di scena inimmaginabili nella prima repubblica, in cui vi era un unico modo di lasciare tracce scritte di valore confessorio, ed era quello di prendere carta e penna e siglare formalmente una tale sconveniente dichiarazione; ora invece che le email non necessitano di firma alcuna, si potrebbe pensare alla loro natura liquida, fluttuante, assimilabile ai noti verba che volavano, e quindi regolarsi di conseguenza.

Invece la Cassazione ci dice che questi finti verba manent; eccome.

Prendiamo, per esempio, l'ultima significativa pronuncia sull'argomento (ordinanza 19155/19) che -da un lato- seleziona sentenze mirate pregresse di supporto, e -dall'altro- trascina ancora un po' più avanti l'elastico, arrivando in modo quasi brutale a richiamare tutti alle proprie responsabilità da terzo millennio, in cui ormai non sono più gradite contestazioni generiche sull'efficacia di una email, con un -non dichiarato ma sostanziale- rovesciamento dell'onere probatorio al riguardo.

E' vero, ci dice la Suprema Corte, che la email non è efficace da sé, ma può essere azzerata attraverso il tempestivo disconoscimento da parte del soggetto contro il quale è prodotta in giudizio; ma questo disconoscimento, per produrre esiti positivi, non può essere generico, ma deve essere chiaro e circostanziato, ed allegare elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e la realtà riprodotta.

La pronuncia pare quindi sottendere una presunzione di efficacia della email sul piano probatorio, che può essere vinta solo da un disconoscimento giudiziale tempestivo e circostanziato, fondato su elementi tali da attestare la non veridicità del documento in questione; il che appare piuttosto arduo.

La Corte, insomma, si fida ormai della tecnica informatica, e ritiene che anche dichiarazioni non certificate reggano a propositi di abuso, che in ogni caso, se smascherati, produrrebbero da sé responsabilità aggravate ex art. 96 c.p.c. e risarcimento.

Il legislatore, invece, si è distratto ed è rimasto ancora di là dal mare, dal momento che nella pur specifica disciplina di settore (CAD, art. 20) si è limitato a sancire che il valore probatorio della email.. “è rimesso al libero giudizio degli organi giudicanti”; il che -da sé- garantirebbe macchie di leopardo e macedonie.

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